L’Aquila, 9 agosto 2012
Cara Eccellenza,
metto per inscritto la condivisione che già nei giorni scorsi ho
fatto a voce con Lei.
La nascita della Fraternità è stata per ciascuno di noi
un dono e un mistero. In me e nei ragazzi abitano le stesse contraddizioni che
credo fossero in Maria quando ricevette l’Annuncio dell’Angelo. C’è paura, c’è
gioia, c’è attesa, c’è curiosità, c’è il senso del nostro limite e c’è
l’immensa Grazia di Dio che ci sovrasta.
Personalmente devo confessarle
che umanamente avrei tranquillamente fatto a meno di assecondare questa
“vocazione nella vocazione”, forse perché vigliaccamente sono più attaccato ai
miei calcoli e al mio orgoglio, mentre quando si asseconda un progetto di Dio
bisogna lasciare i propri calcoli e metterci la faccia. Ma come Lei mi insegna,
quando il Signore chiama, è difficile resistergli. Posso personalmente vantarmi
(vergognandomi) di aver rimandato per anni questa decisione, ma credo che
questa volta non potevamo continuare a giocare a nascondino con la Volontà di
Dio.
In alcuni di noi, da tempo, è
nata una sorta di inquietudine, di insoddisfazione positiva, che ci ha fatto
lungamente interrogare sul suo significato. “Che cosa vuole il Signore da noi?
Che cosa ci manca? Che cosa dobbiamo fare di più?”; erano queste le domande che
ci facevamo, ma ognuno si portava con se un lungo silenzio e forse l’intima
preghiera “compi Signore la Tua opera”.
Ma questi anni sono stati per
noi come una lunga palestra, un lungo addestramento che il Signore ha fatto.
Cara Eccellenza, mi sento privilegiato, perché da sacerdote ho potuto toccare con
mano la santità latente di tanti giovani e di tante persone. Il mondo è pieno
di “figli di Dio”, di quegli “operatori di pace e figli della Luce” di cui si
parla nel Vangelo. Ma a noi mancava il metterci seriamente insieme, il fare
insieme qualcosa, il recuperare una maniera semplice e concreta di essere
Chiesa.
Siamo stati educati alla scuola
di tanti carismi: San Domenico, San Francesco, San Josemaria Escrivà, i grandi
santi dell’Azione Cattolica e della Fuci, Giussani, Chiara Lubich, Chiara
Amirante…e molti altri ancora. Ciascuno di questi carismi ha lasciato traccia
in noi e in un certo qual modo ci ha provocati a fare una sintesi nuova e allo
stesso tempo antica, perché in fin dei conti il nocciolo è sempre lo stesso:
cercare di vivere il Vangelo mettendo in atto una strategia di santità.
La Fraternità ha questo scopo principale: la santità. Essa deve essere
declinata in tutti gli ambiti della vita e in ciascuna delle vocazioni
specifiche dei diversi membri. Mi permetto in maniera sintetica di tracciarne
un profilo così come si è palesato a ciascuno di noi, e così come da diverso
tempo ci stiamo sforzando di viverlo insieme.
La centralità dell’esperienza ecclesiale.
“Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.
La base viva della Fraternità è di natura ecclesiale. Ci
siamo accorti fin da subito, che Gesù mentre da una parte annunciava il
Vangelo, contemporaneamente creava un alfabeto comunicativo speciale. Il
Vangelo si è propagato per amicizia, per contaminazione di rapporti. I primi
discepoli ne sono la prova più evidente. Abbiamo visto dietro questa
caratteristica la prima vera indicazione per ciascuno di noi: possiamo capire e
cercare di vivere il Vangelo solo se c’è un alfabeto di rapporti simile a
quello degli apostoli, dei discepoli di Gesù, dei suoi amici. Per questo il
nome Fraternità è un nome
identificativo dell’esperienza che facciamo. L’attenzione profonda e
consapevole ai rapporti umani tra di noi non è una sovrastruttura o un
formalismo, è invece una vocazione. Ci sentiamo chiamati a una comunione
profonda tra di noi, una comunione con radici spirituali ma con effetti anche
affettivi e umani di solidarietà aiuto e responsabilità. Alla domanda di Dio a
Caino: “Dov’è tuo fratello?”, Caino rispose dicendo “Sono forse io il custode di
mio fratello?”. Sappiamo che in realtà rispose così perché aveva ucciso il
fratello Abele. Noi vogliamo rispondere alla domanda di Caino: “Si, sono io il
custode di mio fratello”. La Fraternità
è un sentirsi affidati a qualcuno e allo stesso tempo un sentirsi infinitamente
responsabili noi di questo qualcuno. E’ un essere padri e figli
contemporaneamente.
Il Dio reale.
Molti dei nostri cammini sono
cambiati quando abbiamo avuto il coraggio di uccidere dio. Cioè di uccidere
quel dio inventato dalle nostre paure, dalle nostre educazioni sbagliate, dai
sensi di colpa, dalla nostra immaginazione. E abbiamo così fatto spazio al Dio
reale, al Dio oggettivo, al Dio non creato dalla nostra testa, a un Dio
Vivente, a un Gesù presente in mezzo a noi. Fondamentalmente tutto è accaduto
attraverso una riscoperta radicale e forte della Sua Parola. Ci siamo detti: se
Dio è reale, allora questo Dio parla. E dove parla? Nella nostra testa? Nei
nostri ragionamenti? Nelle nostre riflessioni? Innanzitutto Dio parla oggettivamente
nella Parola. Ecco perché uno degli impegni fondamentali della Fraternità è la meditazione quotidiana
della Parola, una meditazione che non si consuma in solitudine ma che deve
essere spezzata condivisa con gli altri. Lentamente questa esperienza di “ascolto”
stravolge la nostra mentalità, la converte, le fornisce categorie di giudizio
nuove, sguardi rinnovati sulla realtà. Dio cresce in noi attraverso una
mentalità nuova, e ci riscatta da una fede fatta di sentimentalismo e semplici
emozioni.
La seconda maniera di fare
spazio al Dio reale sono i sacramenti. Soprattutto attraverso l’Eucarestia
quotidiana intesa come una maniera di raccogliere il tempo, il lavoro,
l’umanità che ci passa accanto e offrirla sull’altare affinchè diventi Corpo e
Sangue di Cristo. E’ l’esperienza della vocazione sacerdotale che con il
battesimo tutti i credenti hanno ma che nella fraternità diventa impegno
fondamentale affinchè il gesto dell’offerta e l’educazione a riconoscerlo reale
e presente nell’eucarestia man mano faccia crescere dentro di noi un rapporto
personale e intimo con Lui. La Fraternità è contemporaneamente Maria (quando
ascolta e prende da Gesù) ed è Marta (quando risponde a questo ascolto con
l’apostolato concreto, con l’intercessione per gli altri e l’impegno a
introdurre quanta più gente ad un rapporto vero e liberante con Lui).
Uno speciale attaccamento a Maria.
L’ultimo lascito che Gesù fa
sulla croce è un lascito straordinariamente prezioso e significativo. Al più
piccolo degli apostoli, Giovanni, Gesù consegna la propria Madre e alla Madre
consegna Giovanni. Dietro questo scambio di appartenenze è racchiusa una buona
fetta del cristianesimo. La maternità di questa donna, che è l’immagine della
maternità della Chiesa, è allo stesso tempo una rassicurazione per Giovanni ma
anche una responsabilità. Avere una madre e aver cura di una madre sono due
atteggiamenti che nel credente non devono mai perdersi. Per questo tra gli
impegni quotidiani della Fraternità
c’è la preghiera del Rosario. E’ una maniera semplice, affettuosa,
contemplativa, di rafforzare il nostro rapporto con Gesù fratello maggiore,
attraverso una Madre che è divenuta anche Madre nostra.
Carissima Eccellenza,
ci sarebbero tantissime altre
cose da dire e a da scrivere, ma fondamentalmente credo che il nucleo iniziale
di questa esperienza è descritto in queste righe. Il metodo è quello del
lievito e del sale, che sono sostanze nascoste all’apparenza ma che creano
cambiamenti nella sostanza. Noi vogliamo essere così, nascosti ed efficaci.
Ci affidiamo totalmente alla
Chiesa nostra Madre, all’obbedienza a Lei che è il nostro vescovo e il segno
visibile degli apostoli, e alla comunione profonda con il Santo Padre e il Suo
insegnamento.
Ci benedica, ci consigli, ci
corregga, ci conduca verso la Volontà del Signore per ciascuno di noi.
In Cristo
d.Luigi Maria Epicoco
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